Thursday, November 24, 2011

Carità come la chiave; umiltà come il sole


La Filotea, Parte Terza, Capitoli 1-15
Gruppo in lingua italiana
Emmanuel Camilleri, Gabriel Stawowy


Emanuele e Gabriele

In questa parte, San Francesco introduce le virtù. Praticare le virtù è una scelta che va fatta con molta cura. Leggendo questa parte della Introduzione che parla su le virtù, abbiamo trovato molte similiarità con il testo di Giovanni Ruusbroec, Lo Splendore delle Nozze Spirituale. È interessante che Francesco, come Giovanni, mette la carità come la chiave per le altre virtù. Francesco scrive:
“Come la regina delle api non esce mai senza essere circondata da tutto il suo piccolo popolo, così la carità non entra mai in un cuore senza condurre al suo seguito tutte le altre virtù. Come un buon capitano le mantiene tutte in esercizio e le impiega in vari compiti...”. 

Il Santo insiste che la pratica delle piccole virtù nel quotidiano è importante se la Filotea vuole condurre una vita devota. Non perchè ci sono virtù superiori ad altri, ma perchè queste virtù sono richieste più frequentemente precisamente perchè entrano nel ordinario e non nello straordinario: “il fatto è che queste sono richieste con maggior frequenza. Lo zucchero è più buono del sale, ma il sale ha un impiego più frequente e più generale. Questa è la ragione per la quale occorre avere sempre pronta una buona provvista di queste virtù generali. Si può dire che il loro impiego sia necessario quasi ininterrottamente.” Per le altre virtù, Francesco suggerisce che non c’è bisogno di praticarle in ogni circostanza; questo è sbagliato. Filotea deve adeguarsi alle circostanze, cioè a “piangere con chi piange” e rallegrare con quelli che sono felici.

Filotea è invitata a praticare quelle virtù “più utili al compimento” del suo dovere, non a quelle che le piacciono di più anche se queste possono essere buone e raccomandabili. In questo modo lei si apre alla volontà divina. È quello che hanno fatto gli apostoli che: “istituiti per predicare il Vangelo e distribuire il pane celeste alle anime, giudicarono cosa molto ben fatta, per poter esercitare tale mansione senza distrazioni, tralasciare la pratica della virtù della cura dei poveri, che pure, in sé, è ottima.” Ogni stato di vita deve praticare una particolare virtù. Le virtù di un vescovo sono differenti da quelle di un soldato. Così le virtù sono vissute nelle proprie vocazioni. Importante che tra “le virtù che non riguardano in modo specifico il nostro stato, dobbiamo dare la preferenza alle migliori e non alle più appariscenti” cioè viverle per quelle che sono e non per essere lodevoli negli occhi degli altri: “Tu, Filotea, devi scegliere le virtù più consistenti, non quelle che godono di maggior stima; le più efficaci, non le più appariscenti; le migliori, non le più onorate.” Con questa affermazione, Francesco poi passa a dare esempi concreti dei santi che hanno vissuto qualche particolare virtù. I Santi, per Francesco, rimarrano sempre un punto di riferimento concreto per la vita devota. Invita anche la Filotea di praticare le virtù contrarie se cade in qualche vizio. In questo modo affila una particolare virtù che poi da sua parte aiuta le altre virtù a diventare più risplendenti.

I santi erano uomini e donne come noi, Francesco insiste. Molte volte loro hanno praticato le virtù in un modo imperfetto finche si sono accorti e hanno cambiato la pratica. Questo non ci deve scandarizzarci e allora da parete nostra non ci dobbiamo allora scandarizzare quando vediamo altre persone a praticare le virtù in modo imperfetto. Ma al livello personale, “dobbiamo impegnarci ad esercitarle molto seriamente, non soltanto con fedeltà, ma anche con prudenza.” Tutto questo va esguito sul parere del direttore spirituale.

Filotea non deve neanche andare a cercare qualche esperienza estatica o mistica; questa è data ad alcuni come un grazia del Singore. Filotea si deve concentrarsi sul amare Dio nel concreto, nella realtà: “Questa non è una ragione per esigere tali grazie, anche perché non sono in nessun modo necessarie per servire e amare Dio, che deve essere la nostra unica aspirazione.” Noi dobbiamo cercare di essere uomini e donne oneste “gente devota, uomini pii, donne pie; ecco perché dobbiamo impegnarci seriamente.” Se ci sarà data la grazia di elevarci in qualche esperienza mistica, allor questa è una grazia del Singore e si deve accetterla come tale. L’importante è di non essere presi dalla tentazione di cercare delle elevazioni straordinarie. Nel frattempo Filotea è invitata a cercare quelle piccole virtù che si esercitano nel quotidiano come la pazienza, la bontà, “la mortificazione del cuore, l’umiltà, l’obbedienza, la povertà, la castità, la dolcezza nei confronti del prossimo, la sopportazione delle sue imperfezioni, la diligenza e il fervore delle cose sante.”

La pazienza ci aiuta a possedere le nostre anime. La pazienza diventa più perfetta in questo modo. Dobbiamo spesso guardare il Signore che ha sofferto per noi tramite il quale lui ci ha salvati e cosi possiamo affrontare le prove di ogni giorno con pazienza. La pazienza non deve essere restretta a qualche inguria particolare ma a tutte quelle che il Singore desidera di mandare sulla nostra via. La pazienza, dunque, non è limitata. Non dobbiamo essere come quelli che desiderano di soffrire così che quando riescono a liberarsi troveranno onore e gloria. Ma l’uomo veramente “paziente, ossia chi vuole servire Dio, sopporta con animo uguale le tribolazioni unite al disonore e quelle che danno onore.” È già una prova grande sapportare le ingiurie delle persone cattive, ma sarebbe una prova più grande se quelli che ci fanno del male sono amici or parenti! Questa è la prova più grande per la pazienza!

Accettare la volontà di Dio siginifica essere pazienti, in tutte le tribolazioni. Filotea deve mostrarsi forte in tutte le circostanze, anche quando ci sono elle accuse serie nei suoi confronti. In certi casi è inutile dare delle spiegazioni a qualcuno che non vuole saperne; in tal caso, Filotea deve esercitarsi nella umiltà del cuore. Deve evitare di lamentarsi troppo, ma comunque dev’essere attenta dalle falze lamentele. Ci sono personi che decidono di non lamentarsi quando sono afflitti o malati perchè questo mostra che mancano di generozità o fermezza. Ma poi dentro il loro cuore desiderano tanto di essere al centro dell’attenzione. Questo è pazienza falza: “Il vero paziente non si lamenta del male e non desidera essere compatito; ne parla con naturalezza, sincerità e semplicità, senza lamenti, senza rimpianti, senza esagerazioni; se lo compatiscono, sopporta con pazienza i compatimenti, a meno che addirittura siano per mali che non ha; in tal caso, con molta umiltà, farà notare che quel male non l’ha e poi si manterrà con animo sereno nella pace tra la verità e la pazienza, ammettendo sì il male, ma senza lamentele.” Con la pazienza vera e autentica possiamo far nascere Gesù nel mondo. Il dolore del parto è molto forte, però quando la donna da vita ad una nuova creatura, tutto il dolore è dimenticato. Questo va detto anche per la pazienza personale: “Nella tua anima hai concepito il figlio più meraviglioso di questo mondo, Gesù Cristo. Prima che sia dato completamente alla luce e generato, può darsi che ti procuri ansia e sofferenza; ma fatti animo perché, passati quei dolori, ti rimarrà la gioia senza fine di aver dato tale uomo al mondo.” In fine, Filotea deve gurdare spesso a Cristo crocifisso e sofferente. Lei deve ricordarsi che le sue sofferenze non sono neanche comparabili con quelli del Signore. Lui ci da la consolazione nelle prove terrene.

L’umiltà esteriore ci aiuta a liberarci della vanagloria. Soltanto in questo modo noi possiamo ricevere la grazia di Dio nel nostro cuore. L’umiltà allontana Satana da noi e salvaguardia le grazie e i doni dello Spirto dentro di noi. L’umilità era il punto forte del nostro Singore, di sua Madre e dei Santi. Noi applichiamo la vanagloria, molte volte, per le cose che non possediamo dentro di noi o ad una cosa che ci appartiene e noi ci glorifichiamo in essa. Il Santo fà un paragone eccezionale in questo riguardo: “C’è gente che va superba e altera perché cavalca un bel destriero, perché ha un bel pennacchio sul cappello, perché indossa vestiti meravigliosi. Non ti pare che quella gente sia un po’ matta? Se proprio vogliamo parlare di gloria, spetta al cavallo, allo struzzo, al sarto. Ci vuole proprio un bel coraggio per prendere in prestito un po’ di stima da un cavallo, da una piuma, da una piega dell’abito!”. Dire altro è superfluo!

L’umiltà interiore va vissuta come una grazia di Dio. Molti pensano che i doni interiori che possiedono “perché temono di cadere nella vanagloria e nel vuoto compiacimento.” Ma loro sbagliano in questo riguardo. S. Tommaso d’Aquino dice che il mezzo per giungere all’amore di Dio è proprio tramite i suoi benefici. Niente ci può umiliarci effettivamente davanti a Dio come i fanno i suoi benefici e niente ci fà sentire profondamente umiliati davanti alla sua giustizia come fanno i nostri peccati. Ma dobbiamo pensare a quello che “Egli ha fatto per noi e a quello che noi abbiamo fatto contro di Lui; e, come dobbiamo pensare ai nostri peccati più piccoli, dobbiamo pensare alle sue grazie più piccole. Non dobbiamo temere che il conoscere i doni che ha posto in noi ci gonfi; è sufficiente che abbiamo sempre presente questa verità: ciò che di buono c’è in noi non viene da noi.” Dio è l’autore delle grazie e dei dono che noi possediamo dentro di noi; a Lui dobbiamo ringraziare e non i nostri meriti. Non dobbiamo essere persone che usano due faccie in situazioni diverse. Dobbiamo, invece, cercare di non parlare della nostra umiltà perchè essa si dimostra nelle cose che facciamo, nelle cose che diciamo e nei nostri comportamenti. Che siano gli altri ad osservarla in noi. Non dobbiamo usare una umiltà falsa e maliziosa, come quella di Acaz.

L’umiltà è il sole delle altre virtù. L’umiltà copre e nasconde, come il sole,  tutte le virtù e le perfezioni umane e le lascia apparire solo per il servizio della carità, “perché è una virtù del cielo, non della terra, divina, non umana: è il vero sole delle virtù sulle quali deve sempre brillare. Si può concludere che le forme di umiltà che portano pregiudizio alla carità, sono certamente false.”

Il Santo invita Filotea di amare l’abiezione sempre e in tutto. Ma che cosa vuol dire amare la propria abiezione? La risposta stà nella persona della Beata Vergine: “...la Madonna nel suo Cantico dice che, poiché il Signore ha visto l’umiltà della sua serva, tutte le generazioni la chiameranno beata, vuol dire che il Signore, con bontà, ha guardato la sua abiezione, la sua meschinità, la sua bassezza, per colmarla di grazia e di favori.” Ma c’è una differenza tra l’umiltà e l’abiezione: “l’abiezione è la pochezza, la bassezza e la meschinità che alberga in noi, senza che ci pensiamo; la virtù dell’umiltà invece, è la conoscenza veritiera e l’ammissione della nostra abiezione.” Quali sono allora le abiezioni migliori? “... quelle più utili all’anima e più gradite a Dio, sono quelle che incontriamo per caso o che sono legate alla nostra condizione; la ragione è che non le abbiamo scelte noi, ma le abbiamo ricevute come Dio ce le ha mandate. E Lui sa scegliere sempre meglio di noi.”

Come va conservato il buon nome praticando l’umiltà? L’umiltà non ci permette di avere una opinione personale sul nostro comportamento. Essa non deve andare a cercare l’onore o la gloria. Questi sono riservati a cose più eccellenti. Dobbiamo conservare le virtù perchè questo è che piace a Dio, l’oggetto delle nostre azioni. È importante difendere il Suo nome che il nostro: “nella difesa del nostro buon nome non dobbiamo essere troppo zelanti, esatti e puntigliosi”. Qesto non significa che non dobbiamo difenderci dalle callunie ma senza rabia o odio. Se facciamo della nostra reputazione un idolo, allora i nostri nemici diventano più gelosi. Guardiamo sempre l’esempio e nostro modello Gesù:
“...camminiamo al suo servizio con fiducia e semplicità, accompagnata da saggezza e devozione: sarà lui a proteggere il nostro buon nome. Se permette che ci sia tolto è solo per darcene uno migliore o per favorirci nella crescita dell’umiltà. Ricorda bene che un’oncia di umiltà vale più di mille libre di onore.” Se veniamo ripresi ingiustamente, ci dobbiamo opporre serenamente la verità alla calunnia; se persiste, insistiamo nell’umiltà. “Mettiamo il nostro buon nome, unitamente alla nostra anima nelle mani di Dio,; non potremo trovare migliore garanzia.”
Anche se siamo ingiurati, dobbiamo cercare di essere docili verso il nostro prossimo e controllare la nostra ira. L’umiltà ci fa perfetti davanti a Dio e la dolcezza ci fa crescere nella perfezione negli occhi del nostro prossimo. La dolcezza e la bonomia sono come l’olio che quando si mischia con l’aqua, remane sempre in superficie. La dolcezza e la bonomia “superano tutte le virtù ed eccellono quali splendidi fiori della carità che, stando a s. Bernardo, raggiunge la perfezione quando non è soltanto paziente, ma anche dolce e affabile.” Filotea deve salvaguardare questo olio.

Dobbiamo anche slavaguardarci dall’orgolio che è un risultato della nostra ira e mancanza d’umiltà. Invece quando “l’umiltà e la dolcezza sono vere e sincere ... ci difendono dal gonfiore e dal bruciore che le ingiurie abitualmente provocano nei nostri cuori. Ne consegue che se reagisci mostrandoti orgogliosa, gonfia d’ira, indispettita, allorché sei punta e morsicata dalle male lingue, vuole dire che la tua umiltà e la tua dolcezza non sono profonde e sincere ma soltanto superficiali ed epidermiche.”

La dolcezza è essenziale (Sacrofano)
La dolcezza verso noi stessi, allora, è essenziale. È uno “dei metodi più efficaci per conseguire la dolcezza è quello di esercitarla verso se stessi, non indispettendosi mai contro di sé e contro le proprie imperfezioni.” La ragione, si, detta che noi dobbiamo essere disgustati verso le nostre stesse imperfezioni, “ma non che ne proviamo un dispiacere distruttivo e disperato, carico di dispetto e di collera.” Se la ragione e la fede dettano che non dobbiamo mostrare questi sentimenti verso il prossimo, non li dobbiamo mostrare verso di noi stessi. Questi sentimenti verso di noi stessi portano all’orgoglio “e sono soltanto espressione di amor proprio, che si tormenta e si inquieta per le imperfezioni. Il dispiacere che dobbiamo avere per le nostre mancanze deve essere sereno, ponderato e fermo”. Le auto-correzioni “fatte con irruenza non sono proporzionate alle nostre colpe ma alle nostre inclinazioni.” Accettiamo iostri limiti con serenità e se cadiamo, rialziamoci con un cuore davvero pentito: “Rialza dunque dolcemente il tuo cuore quando cade, umiliati grandemente davanti a Dio alla conoscenza della tua miseria; ma non meravigliarti della tua caduta: è naturale che l’infermità sia malata, che la debolezza sia debole, e la miseria sia misera”.

Nel riguardo le nostre occupazioni, queste vanno affrontate con attenzione, ma senza precipitazione e fretta eccessiva. Dobbiamo essere come gli Angeli: “la cura e la diligenza sono espressione della loro carità, mentre l’ansia, l’apprensione e la fretta sarebbero contrarie al loro stato di beatitudine; giacché la cura e la diligenza possono essere compagne della serenità e della pace dello spirito; non invece l’ansia, la preoccupazione, e ancor meno l’angustia precipitosa.” Nelle nostre vicende quotidiane cerchiamo di accettare in pace le incombenze che ci capitano, e cerchiamo di portarle a termine con ordine, una dopo l’altra. Se cerchiamo di farle tutte in una volta e disordinatamente, faciamo soltanto sforzi che ci angustieranno e prostreranno il nostro spirito e finiamo quasi sempre schiacciati sotto il loro peso e senza risultato. Ecco perchè la nostra fede nella Provvidenza dev’essere sempre forte; noi dobbiamo soltanto mettere in pratica la nostra collaborazione.

Se la carità ci eleva alla perfezione, “l’obbedienza, la povertà e la castità sono i tre grandi mezzi per acquistarla”. L’obbedienza è il mezzo della consacrazione del nostro cuore. Essa può essere necessaria quando ubbidiamo umilmente ai nostri superiori, ecclesastici, civili o anche genitori o parenti. Essa “si chiama obbligatoria perché nessuno può dispensarsi dall’obbligo di ubbidire ai superiori sunnominati, perché è Dio che ha dato loro l’autorità di comandare e di governare, ognuno nei suoi limiti. Fa dunque quello che ti è comandato. È necessario.” Obbediamo anche quando le cose  sono indifferenti “quali indossare un abito anziché un altro” ma “anche nelle cose difficili, aspre e dure; quella sarà un’obbedienza perfetta”. E dobbiamo obbedire con amore verso Colui che si è fatto ubbidiente fino alla morte di Croce.

L’ubbidienza è volontaria quando “non ci è imposta da alcuno. Abitualmente il principe e il vescovo non li scegliamo noi, né il padre, né la madre; qualche volta nemmeno il marito” ma scegliamo il nostro direttore spirituale e il nostro confessore; questa è una scelta volontaria. Può darsi anche che scegliamo di fare un voto che gli ubbidiamo sempre; ma è sempre un obbedienza volontaria. Per esercitare o praticare le devozioni è sempre meglio appoggiarsi sul parere del direttore spirituale.

La castità è neccessaria se vogliamo vivere un vita devota autentica. Questa virtù è il giglio delle virtù. La castità è anche consciuta come onestà e sarebbe un onore praticarla. È anche integrità e il suo opposto è la corruzione. Francesco dice che nel matrimonio è lecito esperienzare il piacere perchè il matrimonio “con la sua santità, compensa il discredito insito nel piacere” anche se nel matrimonio ci dev’essere sempre un intenzione virtuosa. Un cuore casto è una gemma che deve soltanto permettere quello che scende dal cielo. Fuori dal matrimonio non è mai permessibile tollerare dei pensieri cattivi.
Ci sono tre gradi di questa virtù nel matrimonio:

  • In questo grado la Filotea dev’essere in guardia di non “accogliere in te alcun genere di piacere inammissibile e proibito, quali sono tutti quelli che si prendono fuori del matrimonio, o anche nel matrimonio, se si prendono contro le regole del matrimonio”.
  • Nel secondo grado “taglia, per quanto ti sarà possibile, anche i piaceri inutili e superflui, benché permessi e leciti”.
  • Nel terzo grado: “non legare il tuo affetto ai piaceri e alle soddisfazioni che sono comandate e prescritte; è vero che bisogna prendere i piaceri necessari, ossia quelli che sono legati al fine e alla natura stessa del santo matrimonio, ma non per questo devi impegnare in essi il cuore e lo spirito”.

Del resto, tutti hanno molto bisogno di questa virtù. Le vedove devono avere una castità corragiosa. Come si conserva la frutta intaccata usando lo zucchero o il miele, così anche per la castità “non ancora ferita e contaminata: sono tanti i modi per conservarla, ma una volta intaccata, può conservarla soltanto una devozione eccellente che, come ho detto spesso, è l’autentico miele e lo zucchero delle anime”.  Le vergini, invece, hanno bisogno di bandire dalle loro mente ogni pensiero che non è degno del loro stato, che “stiano bene attente; senza alcun dubbio dovranno sempre avere per certo che la castità è incomparabilmente molto meglio di tutto ciò che le è contrario”. Non si avvicinano troppo al fuoco, altrimenti si bruciano. Gli sposati possono anche loro vivere la castità. Per loro la castità non significa astinenza totale, ma significa moderazione. Tutte le persone in queste categorie sono chiamati alla castità. È il modo anche sicuro per vedere Dio e di vivere in Lui.

Flotea è invitata a conservare la castità, di stare lontana da tutto quello che può danneggiare questa virtù. Il nostro corpo è fragile e perciò va protetto. Le confidenze, anche quelle che prevengono dagli amici, sono pericolosi “La castità ha la sua radice nel cuore, ma è il corpo la sua abitazione; ecco perché si perde a causa dei sensi esteriori del corpo e per i pensieri e i desideri del cuore. Guardare, ascoltare, parlare, odorare, toccare cose disoneste è impudicizia se il cuore vi si immerge e ci prende piacere”. La castità comunque non è da conservare nel corpo ma anche nel cuore; e fa l’esempio di un santo “S. Basilio, che disse un giorno, parlando di se stesso: Non ho mai conosciuto donne eppure non sono vergine”. La castità si può perdere in tanti modi. Allora ci vuole sempre la prudenza nel parlare, nell’agire, nel sentire. Per difendersi bene in questa virtù, Filotea dev’anche scegliere bene gli amici e le persone che frequenta: “non frequentare le persone licenziose, soprattutto se in più, sono anche svergognate, il che avviene quasi sempre; sai perché? Sono come i caproni che, leccando i mandorli dolci, li rendono amari”. Alla fine, essa è invitata, ancora una volta, ad essere vicina a Gesù crocifisso, tramite la meditazione e più realmente tramite la Santa Comunione “perché allo stesso modo che coloro i quali si coricano sull’erba detta “agnus castus” diventano casti e puri, se tu riposi il cuore su Nostro Signore, che è il vero Agnello casto e immacolato, scoprirai presto che la tua anima e il tuo corpo sono mondati da tutte le sozzure e le sensualità”.

Posa il cuore tuo nel cuore di Gesù (SDB HuaHin) 
Si può essere ricchi e allo stesso tempo poveri nello spirito? Secondo il nostro Santo, quest è possibile e fattibile. Il Singore stesso dice che sono beati i poveri in spirito. Perciò quelli che sono ricchi in spirito vivono l’inferno in questo mondo! Che è ricco nello spirito? “Il ricco di spirito è quello che ha le ricchezze nel cuore e il cuore nelle ricchezze; il povero di spirito è colui che non ha né le ricchezze nel cuore, né il cuore nelle ricchezze”. Il cuore della Filotea dev’essere aperto soltanto verso il cielo e impenetrabile alle ricchezze. Anche se possiede tante cose, Filotea deve allontanarsi il cuore da essi.

C’è una differenza tra possedere del veleno ed essere avvelenata. Non si lasci che le ricchezze diventino il veleno per la sua anima: “”Essere ricco di fatto e povero nel cuore è una gran fortuna per il cristiano; in tal modo ha gli agi della ricchezza in questo mondo e il merito della povertà per ‘altro!”

C’è gente che trovano difficoltà ad ammettere che sono avari. L’avarizia “è una febbre maligna, che più è forte e bruciante e più rende insensibili” e Filotea deve cercare di starne lontana da essa. Se si possiedono delle cose si deve acquistarli e usarli in un modo giusto. Ma dev’essere sempre il distaccamento del cuore dalle cose. Le cose acquistate giustamente devono essere usate per il bene degli altri e con carità: “sono d’accordo che tu abbia cura di accrescere il tuo patrimonio e le tue possibilità, ma sempre con giustizia, con calma e carità”. Da altra parte, non è saggio desiderare le cose che non possiede and non è saggio neanche impegnarsi il cuore sulle cose che possiede.

Come praticare la povertà genuina? Filotea deve avere cura a vedere che le cose che possiede, rendono frutti con i quali si possono aiutare gli altri. Qual è la ragione? Perchè tutto quello che noi possediamo non è nostro “Dio ce l’ha affidato e vuole che lo rendiamo fruttuoso e utile; se ne abbiamo cura per bene il nostro servizio gli sarà accetto. Deve essere una cura maggiore e più continua di quella che la gente del mondo ha per i propri beni. Essi si impegnano soltanto per amore di se stessi, noi invece lavoriamo per amore di Dio” implicando così – con l’Appostolo – che quelli che desiderano la vita devota devono pensare diversamente da altre persone: noi siamo nel mondo, ma non siamo di questo mondo. Liberare il cuore da alcune cose che ne possiede aiuta la Filotea di non attacarsi troppo a questo mondo e alle cose materiali: “dobbiamo molto spesso praticare una povertà reale ed effettiva, pur vivendo circondati da tutte le ricchezze che Dio ci ha dato. Comincia col disfarti di un po’ dei tuoi beni dandoli di tutto cuore ai poveri: “...dare significa impoverirsi nella misura in cui si dà, e più darai e più sarai povera. È vero che Dio ti ricompenserà, non soltanto nell’altro mondo, ma anche in questo; infatti niente rende gli affari tanto prosperi quanto l’elemosina. Tuttavia, in attesa mancherai di quello che hai dato! Ed è una santa e ricca povertà quella procurata dall’elemosina”.


Sintesi di Manny
Servizio fotografico di Joe


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